Mi sveglio nella notte che prelude all’anniversario della mia nascita
e sono ferma di fronte a una finestra, cornice di una cupola che dal grigio tende al rosa antico. È la forma perfetta che l’Architetto Borromini ha concepito per la Chiesa di Sant’Agnese in Agone. Sono in attesa, come ogni mattina, in quel dormiveglia di rinascita nel mio tempo qui e ora.
Versi di gabbiani salutano l’alba. Scrivo e voglio cogliere il momento. Srotolo e stendo gomitoli di un inchiostro che mi aiuta a illuminare e mettere su carta il mio desiderio profondo. Nel senso che mi permette di eseguire la mia potatura per scegliere e decidere le parole da scrivere, quelle da dire e da non dire.
Sono nata a Roma e oggi mi risveglio nella città eterna, felice di esserci ancora in questa vita, in questa forma umana. La parola desiderio si aggira nell’aria. La colgo e da buddista la interpreto come uno strumento per illuminare la mia vita, le mie zone oscure. In questi primi giorni di Luglio l’ho trovata in diverse occasioni. Mi è arrivata all’orecchio tra le note della terza Suite di Bach, quella che mi ha emozionata di più tra tutte, nell’esecuzione di Paolo Andriotti in un bel concerto dal tramonto all’alba al Teatro Villa Pamphilj. Quelle note mi parlavano di un anelito che ci spinge alla conoscenza profonda di chi siamo per realizzare la nostra missione. Desiderio era la parola finale di uno spettacolo intitolato “Il Caso dell’entropia” (sempre in quel teatro), in cui ho ritrovato la mia storia nella scienza e nella divulgazione e la spinta che mi ha portato a vivere tra mondi diversi: tra il pensiero circolare e quello lineare, tra la letteratura e la ricerca scientifica, tra l’Italia e l’America, tra la provincia e la città, tra la campagna e le sue stagioni lente e la Grande Mela, dove il giorno non muore mai e se non lo rincorri rischi di perderti nei sottofondi anziché arrivare in cima ai grattacieli. Con i piedi in due staffe e il cuore diviso, ho cercato nelle relazioni umane la mia identità e continuo a farlo. Lo specchio dell’altro mi offre una prospettiva diversa dalla mia che mi aiuta a migliorare e crescere.
Parlava del peso dei desideri anche Alessandro D’Avenia sul Corriere: “Decidere è potare il desiderio e permettere alla sua linfa di concentrarsi nelle gemme migliori per dar frutto”, ha scritto nella rubrica “Letti da Rifare”. Distingueva tra desideri superficiali e desideri radicali, augurando a noi lettori di diventare desideranti capaci di pesare i nostri desideri.
In questa fase della vita, il desiderio di scrivere è tornato predominante e lo assecondo con il cuore e la mente. Cerco ancora di capire se è quello il mio “desiderio vocazionale, la grande aspirazione, l’intuizione del proprio posto nel mondo, il segreto della felicità, qualunque sia la fatica da affrontare”, come scrive D’Avenia, e mi sto avvicinando alla risposta scrivendo.
Ci penso mentre guardo la cupola del Borromini, che ricopre una Chiesa e confina un cielo che si fa sempre più chiaro. Lascia che il cielo si appoggi sulla sua rotondità e, come un ombrello aperto, ripara i fedeli dal cercare negli astri le risposte ai loro desideri, e li raccoglie invece nell’abbraccio di uno spazio chiuso perché rivolgano lo sguardo all’interno del proprio cuore. Osservo la fermezza di questa cupola sotto un cielo che cambia e mi chiedo: come si fa a stare ferma in questo mio tempo di transizione verso un’età matura, senza fuggire, scappare, voler tornare indietro?
Guardo dentro di me davanti a uno specchio, in quella pergamena buddista che rappresenta la mia vita, e ogni mattina cerco nel buio di una miniera di trovare qualche gemma. A volte mi sento persa in questa ricerca o devo affrontare lo sforzo di scavare e il dolore che comporta, ma ne vale la pena se ho visto la lucentezza di qualcosa da estrarre. Penso a questo mentre mi trovo sulla soglia di una finestra, a un passo dal mio compleanno.
Un amico mi ha suggerito di fare il monolite perché in fondo lo desidero, è evidente dalla ricorrenza della parola pietra nei miei scritti. Ci provo a stare, ma oggi più che mai la tendenza è un’altra. In questo giorno in cui sono nata, in cui ricevo pensieri e auguri che mi ricordano le persone che mi accompagnano in questo viaggio, mi sento passeggera in transito, e lo sono. Vado in giro da ieri con una valigia e una busta gialla, a causa di un appuntamento rimandato. Devo attendere ventiquattr’ore e la mia casa è occupata, così trovo riparo nella Casa delle Letterature sotto l’orologio di una torre che scandisce anche il mio tempo. È per questo evento del tutto casuale che anziché svegliarmi a casa in Umbria, di fronte alla mia grande finestra da dove osservo la luce accarezzare una collina che ha la forma anch’essa di una cupola, mi sveglio sul divano della casa di Paolo e Corinne, di fronte a una rotondità meravigliosa.
Quando penso al desiderio di viaggiare, non immagino tanto posti, ma persone. Vorrei partire e andare a trovare amici che si sono trasferiti, che ho incontrato e lasciato dove ho vissuto anche solo per poco tempo, ospiti che hanno impresso una memoria nell’Agriturismo che ho costruito con Breon, e sono partiti lanciando un invito. Un giorno lo farò ma non è questo il tempo.
Ora è il tempo del silenzio, nel quale stare ferma, per cercare in ogni istante una, due, tre, cento, mille parole, una storia fatta di lettere, per il dialogo interiore che si risolve in un racconto. In compagnia della mia immaginazione posso illuminare l’oscurità con una penna tra le dita, e mi sento come il condannato di Borges di fronte al plotone, al quale è concesso di vivere un miracolo, segreto a tutti, meno che a lui. È l’unico consapevole della possibilità concessagli: avere a disposizione l’infinito in un istante per portare a compimento la sua opera a mente. Parola per parola la compone, la corregge, la rivede, trova il ritmo, il movimento, la dinamica, l’armonia, tutti gli elementi necessari a raccontare il viaggio dell’eroe, la sua trasformazione che avviene sotto gli occhi del lettore, dalla prima parola all’ultima pagina, all’ultimo rigo, all’ultima sillaba.
Ma forse non voglio arrivare al punto finale, non ancora, perché allora il tempo riprenderà a scandire una corsa verso la morte alla quale sono destinata. Meglio essere qui, ferma nel movimento, ascoltando il silenzio di una cupola perfetta. In questo stato posso invertire la freccia del tempo e tornare allo stupore, alla meraviglia dell’inizio, per ripartire con la storia e scegliere la diramazione che prima avevo escluso, per ogni parola diritta il suo rovescio. Così, anziché scrivere della trina, che svolazza da una finestra aperta su una cupola, posso immaginare il taglio di un diamante, la gemma preziosa che tutti custodiamo nella tasca del cappotto senza saperlo. E ci sentiamo poveri e derelitti, avanzando nella vita, per poi scoprire al momento opportuno, mettendo la mano in tasca, che la gemma è sempre stata lì, l’abbiamo sempre posseduta e da sempre ci ha illuminati.
E il momento opportuno è ora, come conclude il fisico Carlo Rovelli nel suo libro “L’ordine del tempo”: “Buddha lo ha riassunto in poche formule, che milioni di uomini hanno preso a fondamento della propria vita: la nascita è dolore, la decadenza è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che odiamo è dolore, la separazione da ciò che amiamo è dolore, non ottenere quello che desideriamo è dolore. È dolore perché quello che abbiamo e a cui ci attacchiamo poi lo perdiamo. Perché tutto quello che inizia poi finisce. Quello che soffriamo non è né nel passato né nel futuro: è lì ora, nella nostra memoria, nelle nostre anticipazioni. Aneliamo all’atemporalità, soffriamo il passaggio; soffriamo il tempo. Il tempo è il dolore. Questo è il tempo, e per questo ci affascina e ci inquieta, e forse anche per questo, lettore, fratello, hai preso in mano questo libro. Perché non è altro che una labile struttura del mondo, una fluttuazione effimera nell’accadere del mondo, ciò che ha la caratteristica di dare origine a quello che noi siamo: esseri fatti di tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra stessa esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza che è la radice di ogni nostro soffrire.” E io ci aggiungerei anche di ogni nostro gioire.
di Marta Cerù