Poesia di Fosco Maraini (da Gnosi delle fanfole)
E gnacche alla formica
Io t’amo o pia cicala e un trillargento
ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!
Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? È vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.
Verrà l’inverno, sì, verrà il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schicchera giglese e
sgnèllida tra cròndale velvine.
Canta cicala, càntera in manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona.
Variazione sulla poesia
È bello quando al Cucciolo arrivano gli amici! Tutto cambia eppure tutto resta uguale, perché in fondo chiunque approda qui tra le colline trova l’intento da parte mia di entrare in relazione, anche solo con una stretta di mano. La bellezza del luogo fa tanto, ma non basta se non è unita al cuore. E io ce lo metto tutto, quando ci sono…
“E gnacche alla formica ammucchiarona”, mi dico stamattina all’alba pensando a una poesia che lessi tempo fa e ho ritrovato grazie all’input di un amico caro. Ci sono mattine in cui la formica che è in me lascia tutto lo spazio alla cicala, che vuole cantare alla vita, alla natura, all’amicizia che lenisce le ferite e a lungo andare le cura.
Arriva Paul a trovarci e ogni parola è un’emozione che mi aiuta a cogliere l’attimo e fissarlo in una memoria da usare come un balsamo quando sarò sola.
Veglio sul sonno degli amici, prima che il sole sorga, e trovo quel momento per me, per curare il mio intento, accarezzarlo con amore. Quel desiderio di ritrovarsi tutti seduti attorno a una tavola imbandita come ieri sera, felici di donare attenzione gli uni agli altri.
E perché l’atmosfera sia giusta il cibo deve essere fresco, sano, buono, nutriente, tale da sollevare qualcosa in noi verso quell’altezza dove la condivisione è di casa. “Camminavamo per il paese nel pomeriggio e mi sono detto. Ma che ci faccio qui? Torniamo lì, è lì che voglio stare, lì stavo già bene”, racconta emozionato un nuovo ospite. È una persona appena conosciuta e forse non sa che mi dona il complimento più bello. Un’altra voce gli fa eco dalle sponde della tavolata: “Anche io non me ne vorrei più andare”.
Cosa rende così vero questo posto? Mi chiedo tra il sonno e la luce che avanza. Non sono io, c’è dell’altro. C’è anche Breon, questo è sicuro. Entrambi speriamo che chi è qui in vacanza si senta a casa, ma non abbiamo una regola o una ricetta o un manuale da seguire, per questo lavoro strano che è accogliere il desiderio di evasione, di stacco, di ricarica. Ci affidiamo al posto, alla natura, agli elementi in continuo mutamento, perché le batterie degli ospiti attingano a un’energia intangibile e consentano loro di tornare all’impegno quotidiano con l’intento giusto.
Mi sento tanto formica in questa vita e l’agriturismo per me non è vacanza ma lavoro. Devo essere “ammucchiarona” perché questo posto esista, si rinnovi ogni giorno, ma rimanga saldo nello scopo di accogliere il prossimo cercatore errante, colui che troverà la pace dell’appartenenza al canto delle cicale qui e ora, dove tutti vorremmo essere e possiamo.
Accolgo l’amica Stacy nella mia cucina e lei mi ringrazia per averle consentito di creare la sua insalata proprio qui, nella cella da dove guardo il mondo. Lo spazio è piccolo ma in due ci stiamo. E mentre io mi occupo di tutto il resto, cucino le salsicce, taglio patate, presento in un coccio la panzanella di Dorina, taglio formaggi, accosto miele e marmellata di zucchine, mentre allestisco un menu che possa soddisfare i palati, in quel momento di emergenza in cui l’intento di una giornata, nutrire le persone alla mia tavola, diventa senso, la vedo tagliare colori attingendo a una tavolozza di verdure, frutta e particelle di cuore.
Mi chiede una ciotola e le porgo la più grande, perché so che dovrà contenere qualcosa di speciale: foglie di insalata verde, lavate, asciugate, spezzate con le mani, stralci di radicchio rosso, dolci ciuffi di valeriana, listarelle di peperone, dadini di sedano, fettine di carote, tozzetti di anguria succulenti, nonostante i semi che ti troverai a dover sputare, e così va bene, non si può eliminare quel piccolo fastidio che rende l’imperfezione amabile. Osservo le mani di Stacy spremere una pioggia di limone, spargere fili d’oro di olio extra vergine di oliva, dispensare una grandine di sale e peperoncino tritato, qualche fogliolina di prezzemolo e basilico, per poi donare quell’abbraccio di mani che mescolano e uniscono i colori, pur mantenendoli separati.
Ognuno cede all’altro qualche particella di sé ed è questo che può rendere migliori le nostre insalate miste, ognuno attinge da quella ciotola che non ha un fondo, dove trovare quel pizzico di sé che ci fa riconoscere nell’altro, quel colore che odora di casa, a volte di aspro e di salato, altre volte di dolce e rosso, come un boccone di cocomero maturo in estate che si scioglie in bocca anche senza masticare.
“E gnacche alla formica ammucchiarona”, ripeto a me stessa. E allo stesso tempo dico evviva a quella mia formica che si presta a lavorare in estate perché possa esistere e sentirsi a casa chi vuole cantare. “Se ognuno attinge all’intenzione profonda”, racconta l’amico Paul che è anche attore e intrattenitore, mentre l’emozione gli inumidisce gli occhi, “non ci sarebbero limiti all’espressione. Ci si capirebbe senza sforzo grazie a quell’amore”.
Qual è il mio piatto forte per questa mensa da imbandire? Mi chiedo ogni sera come tutte le sere. Oggi propongo marmellata di zucchine accanto al pecorino, oppure a fine cena, ingrediente di una crostata che riceve il plauso generale. Rido assieme a chi apprezza la mia creazione. Proviene da una scoperta: quando qualcosa è troppo, posso provare a trasformarlo così da non buttarlo. Le zucchine crescono così in fretta che non riesco a raccoglierle al momento giusto. Invadono l’orto con le loro dimensioni oltremisura. Ne faccio una purea da unire con lo zucchero e cuocere a fuoco lento perché si trasformi in confettura.
Alla fine della festa sento che il mio lavoro ha un senso. E dico “gnacche alla formica ammucchiarona”, perché è grazie a lei che la cicala può cantare. E quando in inverno la formica sarà stanca rievocherà il ricordo di quella musica, e sarà quello il nutrimento giusto per superare le giornate fredde e corte.
di Marta Cerù