Nella giornata di lutto nazionale
per il crollo assurdo di un ponte che ha ucciso tante persone e distrutto i legami con chi è rimasto in vita, ho cercato il silenzio in me stessa e negli altri. La settimana di un Ferragosto funesto era al termine e mentre salutavo e fermavo le immagini sulle persone con le quali anche senza parlarne ho sentito di condividere il lutto, mi accompagnavano le parole e la melodia della canzone “The Sound of Silence” di Simon and Garfunkel: “Nessuno osi disturbare il suono del silenzio…”
La settimana precedente si era chiusa in un’esultanza di risate e pianti ed era difficile conciliare quelle emozioni ancora presenti con il dolore per quello che succede a fianco a noi, ai nostri compagni di viaggio in questa Italia divisa in regioni, ognuna con la sua storia, la sua cultura, la sua lingua. Così ho concentrato l’attenzione sul silenzio, ascoltando anche quello di chi era qui in vacanza e aveva voglia di risate e leggerezza ma ha dovuto accordare quel desiderio con la presenza del lutto collettivo, con la consapevolezza che la morte è parte della vita, presente dietro l’angolo, attraversando un ponte, partendo o tornando dalla vacanza, o recandosi al lavoro come ogni giorno. Alla fine della settimana ho realizzato quanto il silenzio fosse necessario a tutti, perché è l’unico modo per elaborare ognuno a suo modo la perdita, quando qualsiasi parola suonerebbe stonata.
Mi ha aiutata la presenza discreta di Valeria, una ragazza che si muoveva con la delicatezza dell’ascolto. Colpita dal suo portamento riservato ma presente, una mattina ho scoperto che avevo di fronte una pianista e una studiosa dell’arte. Mi ha raccontato di essere prossima all’esame di diploma e mi è dispiaciuto non averlo saputo all’inizio della settimana perché le avrei offerto il nostro piano per esercitarsi a piacimento. “Magari un’altra volta”, mi ha detto. E ho capito. I pianisti sono persone che non si concedono facilmente. Ma non è per egoismo, è più una forma di pudore, di riservatezza, un’abitudine alla solitudine di uno strumento che non si porta con sé come la chitarra e non è fatto per essere strimpellato. Anche mio fratello Michele è pianista e così mia figlia Lucia, e io sono abituata a sentirli studiare di straforo. Quando mi capita, mi sento una privilegiata, perché ho sempre amato la musica per piano, e per me anche ascoltare qualcuno che studia è come essere a un concerto, ma capisco la reticenza a suonare per altri quando non si è pronti. Capisco quell’orecchio che tende alla perfezione e fatica ad accontentarsi dei propri risultati. Quindi non ho insistito con Valeria che mi ha invitata a seguire il suo cammino musicale, quando capiterà l’occasione. Ho apprezzato la sua presenza silenziosa perché il suo bisogno era anche il mio.
Durante una conversazione con suo padre, un illustratore romano che si occupa più che altro di pubblicità ma che nasce come artista dell’acquarello, una sua frase mi ha davvero colpita: “Ho scoperto quasi subito che l’acquarello era il mio mezzo espressivo, per la caratteristica solo sua per cui ciò che conta è quello che non si dipinge”. Ho pensato all’uso dello spazio bianco e all’emergere del colore dall’acqua, che si posa sul foglio per creare forme attorno all’assenza. “Anche nella musica amo artisti come Miles Davis che lasciano intuire più che dichiarare”, mi raccontava Alberto Celletti che oltre a essere un artista del pennello suona il basso.
Mi ha ricordato un altro artista che stimo molto, Fabio Magnasciutti, anche lui musicista stile rock-folk nel gruppo Her Pillow. I suoi disegni conciliano colori, suoni e parole, facendo leva sui significati molteplici, sull’allusione, sui modi di dire, sugli stereotipi, sull’attualità, sulle sue geniali intuizioni senza frontiere di lingua, dall’italiano all’inglese, ma sopratutto sulla sua profonda sensibilità nei confronti dell’altro da noi.
Nel piccolo di questo luogo di vacanza, dove arrivano più che altro italiani, mi stupisco sempre delle differenze culturali tra le nostre regioni, nel modo di parlare, di mangiare e di porsi gli uni con gli altri. Sembra quasi che non esista l’italiano ma piuttosto il romano, il milanese, il fiorentino, fino alle minime differenze tra piccoli paesini confinanti, per cui l’aretino è diverso dal cortonese o il perugino dal ternano. Siamo tutti attaccati alle nostre radici e fatichiamo a capire quelle dei vicini. E invece trovo che sia l’esercizio più bello, quello di conoscere altre culture e prestarsi allo scambio vero perché ognuno ne esca arricchito. Ma per farlo occorre far tacere il pregiudizio, praticare il disarmo interiore e mettersi in ascolto. Occorre lasciar perdere l’apparenza e guardare al cuore delle persone, anche quando non ci si capisce bene.
Come quando mi sono trovata ad ascoltare ospite Antonella, qui in vacanza, che mi raccontava della ‘nana mutola’. Lì per lì ridevo di questo nome strano, pronunciato alla toscana, e lo associavo al silenzio, al mutismo attorno a una tavolata che, benché a fine settimana, faticava a vivacizzarsi. C’erano una coppia di Milano, una famiglia veneta, una romana e infine Antonella e Stefano, una coppia di Prato che ha portato al nostro orecchio la ‘c’ aspirata del toscano verace. “Il toscano aretino”, mi diceva Antonella, “non quello di Firenze, che loro son signori. Da noi la papera la si chiama ‘nana’ e quella bianca tremendissima, con quei cosi rossi sul becco, quella che non fiata, la si chiama ‘nana mutola’. E la si cucina in umido nell’aretino, ci vengon certe tagliatelle con il sugo di nana mutola”. Faticavo a capirla quando si infervorava a difendere le sue radici cortonesi. “Ora vivo a Prato ma la mi’ mamma l’era di Cortona. E lì si cucina l’ocho”.
“Cosa? Sarebbe l’oca?” ho chiesto.
“No, l’ocho, quel papero bianco, gigante, cattivissimo”.
Ascoltavo la parlata di questa donna che fatica a camminare, per l’età e il peso che gli anni le hanno lasciato addosso, e mi investiva il vento di tutte le ‘c’ mancanti, una brezza leggera che mi solleticava al punto da scatenarmi una risata irrefrenabile. ‘Nana mutola’, mi dicevo, sei tu la protagonista di questa settimana silenziosa? Ho immaginato quell’animale bianco, che non parla ma emette un suono aspirato quasi gracchiante e che attacca sempre e comunque, gira per l’aia e difende il territorio, quasi come un cane da guardia. E ho deciso che l’avrei cucinata anche io in umido prima o poi, senza offesa ai vegetariani!
L’occasione si è presentata qualche giorno dopo la partenza dei toscani, che oltre alle memorie dei loro passi tra queste colline hanno lasciato indietro tutte le ‘c’ appese all’aria sotto il nostro pezzo di cielo. Le ho catturate una ad una e messe a soffriggere con carote e cipolla tritate, per poi rosolarci dadini di carne di ‘nana’ che ho innaffiato di abbondante vino bianco, provando a cucinarla in umido come mi era stato detto. Ne è venuto un intingolo di color arancio chiaro, senza pomodoro, in cui ho immerso le tagliatelle appena scolate. L’apparenza era quasi scialba e forse anche il sapore era troppo delicato e arioso, ma si è adattato bene alle tagliatelle di Dorina, impastate fresche la mattina, tagliate dalle sue mani d’oro, stese ad asciugare e cotte al punto giusto, così da sentirne l’intento di sfamare i commensali.
Non so se la mia ricetta corrispondeva a quella originale. Non so se ripeterò l’esperimento e se i commensali hanno gradito un condimento che non era sugo. So che per me la ‘nana mutola’ resterà nella memoria associata a due settimane di lutto e di rabbia, nelle quali un ponte è crollato e un altro ponte, quello della nave Diciotti, è diventato una prigione forzata per centinaia di migranti soccorsi in mare ai quali veniva impedito lo sbarco in Italia, in un rimpallo di responsabilità che tradiscono la speranza di chi è in fuga da morte certa.
Quell’animale bianco e ‘tremendissimo’, che si finge senza macchia, si aggira ovunque, parla tutti i dialetti di una penisola divisa, chiude porti, difende territori, attacca prima ancora di ascoltare, parla prima ancora di pensare, agisce prima ancora di provare a sentirsi un essere umano, tale e quale a chi ha di fronte ed è inerme e indifeso solo perché nato in un altro paese.
di Marta Cerù