Ho incontrato un cane di nome Vlad.
“Strano nome”, dico al padrone che lo ha al guinzaglio e mi saluta sorridendo. “Viene da Vladimir Jankelevich”, mi spiega, “un grande filosofo”. “Non lo conosco”, dico io, “è la prima volta che incontro un cane con il nome di un filosofo”. E così quest’uomo serio, discreto, interessato al pensiero umano, mi parla dei libri che ha letto e amato, cita “ Il puro e l’impuro”, “La morte”, “La coscienza ebraica”, “Debussy e il mistero”, libri che parlano di ebraismo, di vita e di morte, di musica e pensiero musicale, e a vedere quei titoli vorrei tanto conoscerlo meglio questo filosofo, aver letto anche io così tanto. Quasi a giustificarsi mi dice di non essere laureato in filosofia, ma io lo sento che ha studiato per una vita intera. La sua ricerca di un senso lo ha portato a immergersi per anni nel greco antico, mi racconta, per approfondire i temi a lui cari dell’ebraismo e del cristianesimo.
Mentre parliamo Vlad ci guarda e tace e io mi incanto in quello sguardo di Hairdel Terrier che mi ricorda la mia prima infanzia ad Aprilia e il primo cane che ho avuto, di nome Ciuk. Era anche lui un Airdale Terrier riccioluto, un cucciolo esuberante, esploratore, vivace, e un giorno scappò dal cortile della villetta in cui vivevamo, scavalcando il cancello. Non lo trovammo più e non ho mai saputo che fine abbia fatto. Voleva vivere, esplorare, non poteva stare confinato in quel cortile. Mi assale un senso di ammirazione per il cane che ho davanti e per il suo sosia di allora: rispetto oggi la sua fuga che provocò tanto dolore in me bambina inconsapevole.
Forse fu un esempio per me, che rivedo in un attimo le mie fughe, fisiche e mentali. È un tema che ritorna quello del mio scappare. Mi sveglio a volte con quel desiderio, di evadere, fuggire, anche solo nei libri, negli amici, nella musica, nei luoghi della memoria o in quelli che ancora non conosco ma immagino. Ma da cosa voglio fuggire? Mi chiedo, provando un disagio che confina con la vergogna. Da quale confine se la mia vita è piena, fortunata, densa di desideri avverati, ricca di opportunità, a volte colte a volte perse, ma comunque ricevute, piena di relazioni, di sentimenti manifesti o celati, perché riconosciuti solo a me stessa in quello spazio intimo del mio mondo interno, che non smette mai di stupirmi e stimolare la mia ricerca e il mio desiderio di conoscenza e accoglienza.
Oggi il mio confine lo vedo nelle quattro mura di una cucina che sento come una gabbia ma in realtà è la mia siepe, quella che mi separa dall’orizzonte dove si spinge la mia immaginazione. Perché quando cucino penso, mi perdo nel pensiero, le mani agiscono, operano, si muovono, mescolano ingredienti, tagliano, sminuzzano, separano, uniscono, toccano verdure, condimenti, placano quel bisogno di azione, di movimento, di creazione di qualcosa di tangibile, come un piatto che solo io so preparare. Solo io in quel momento, con quell’aria, quell’acqua, quel sale, quel frutto di stagione, ogni giorno diverso. Per questo non riesco a seguire ricette, a fare uno schema, a rispettarlo, a seguire un menu al giorno, sempre quello. Ci provo ma non ci riesco, leggo dosi, preparazioni, ci provo a seguire una guida ma poi cambio qualcosa, perché arriva un’ispirazione improvvisa e mi possiede, non posso che seguirla, il corpo va e l’anima segue.
La mente, quella ingannatrice, arriva dopo in cucina. Ed è la mia fortuna quel ritardo. È lenta a capire, studiare, imparare, dire la sua, elaborare il meccanismo, dire, ecco, ci sono, se voglio posso riprodurre il piatto, se voglio. Ma lo voglio se ormai ho capito? Replicare una ricetta sempre uguale?
Non ho risposta a questa mia domanda che mi assilla spesso e volentieri. Così nell’atto del cucinare perdo un po’ di quella mente così esigente, a volte noiosa, a volte troppo precisa e inflessibile nel giudizio. E invece l’altra mente vola, parole si rincorrono, si associano, emergono pensieri, spesso delicati, sognanti e ispirati, a volte tormentati o angosciati. In questo caso, grazie al silenzio attorno a me dei vapori e degli aromi, grazie all’azione, a quello stare ferma con le mani in pasta in movimento, quei pensieri si placano, qualcosa li asseconda e poi li lascia andare a trasformarsi, a svaporare. Come quando rompo i tuorli, li sbatto con lo zucchero, li unisco al Marsala, e comincio a girare sul fuoco, in quel bagno di Maria, caldo, che bolle lentamente in un pomeriggio di luglio. L’acqua bolle piano e la crema si addensa e ai miei sensi arriva un calore intenso che aumenta gradualmente, come in una sauna, e mi fa espellere tossine dai pori della pelle sudata, al punto che anche la mente si libera dei pensieri troppo ossessivi, che si mescolano all’alcol del liquore, alle esalazioni che inebriano il mio naso, mentre mescolo e giro il cucchiaio in senso orario. perché il tempo ha quella freccia nel mio mondo macroscopico.
Sono ferma ma la mia mano gira il cucchiaio con lentezza, crea cerchi regolari e poi spirali che addensano una crema e svaporano un pensiero. E in quella trance perdo di vista il mondo e sono intera in quel presente, in quel calore, in quel giallo oro dal profumo di antico. Non ho bisogno di assaggiare per sentire il gusto, mentre ritorno con la memoria a mia nonna, a Torino, a un mondo lontano che non ho conosciuto ma trovo dentro di me. È un ricordo di una dolcezza struggente, che sa di nostalgia, unita al sapore quasi acre che ha l’alcol, quando c’è e non c’è perché il calore lo ha volatilizzato. Quello che resta, alla fine della cottura, è una crema speciale che tutti chiamano zabajone e per me è invece il ricordo di un passato remoto, che si riversa nella zuppiera del mio presente.
di Marta Cerù